Navigando sul web e leggendo testi di psicologia ti sarai reso conto che noi psicologi utilizziamo spesso le parole “cliente” e “paziente” per identificare le persone che vengono in studio da noi.
É indubbio che possano essere utilizzate entrambe, non ce n’è una giusta e una sbagliata.
Dal mio punto di vista però forse è il caso di riflettere sul perché utilizziamo l’una o l’altra parola, perciò ti spiego come mai io utilizzo sempre il termine “Paziente” il quale è un tassello nella mia concezione di Psicoterapia Cognitivista e di rapporto terapeutico.
Partiamo dal perché non utilizzo il termine “Cliente”
Non che i Clienti non mi piacciano, figuriamoci, pure io spesso sono cliente quando vado al negozio, esattamente come tutti, ed andiamo al negozio perché abbiamo una sacrosanta necessità. Ma è esattamente questo che ci richiama la parola "Cliente".
Immediatamente ci fa venire in mente un negozio.
Sarà una constatazione fatta così, un po' “di pancia”, senza alcuna base effettiva, ma quando si sente questa parola, dubito fortemente che inizialmente la maggior parte delle persone immagini altro. L’impressione che ci dona questa parola quindi è più o meno quella di noi quando entriamo in un negozio di scarpe, al supermercato, dal macellaio.
“vorrei un etto e mezzo di mortadella”
“con o senza pistacchi?”
“senza, grazie.”
Transazione.
Buona la mortadella, simpatico il commerciante, forse ci ritorno!
Per quanto nello studio di uno psicoterapeuta vi sia necessariamente un aspetto di transazione economica dal paziente al sanitario ed effettivamente anche i commercianti spesso curino la relazione col cliente, il contesto dello studio di psicoterapia non è esattamente (si fa per dire) accostabile alla prima impressione che ci suggerisce la parola “Cliente”.
E' semplicemente tutt'altro.
La prima definizione che troviamo sulla Treccani infatti è la seguente:
“Si chiama CLIENTE chi compra un bene o un servizio (il negozio era pieno di clienti; servire un c.); in senso più specifico, poi, cliente è chi si fornisce abitualmente in un negozio o frequenta abitualmente un locale (un c. affezionato; mi trattano con riguardo perché sono c.), oppure chi si avvale abitualmente delle prestazioni di un avvocato, un commercialista o un altro professionista.”
Le seconde definizioni invece sono totalmente antitetiche rispetto ad un qualsivoglia rapporto di psicoterapia.
“2. Nell’antica Roma, la parola indicava chi, pur godendo dello stato di libertà, si trovava in un rapporto di dipendenza da un altro cittadino potente (il patrono), dal quale riceveva protezione; 3. da questo significato storico ne deriva un altro, figurato, attuale e generalmente spregiativo, che vede nel cliente chi, per interesse, si mette al servizio di una persona potente (dispongo della mia volontà e non sono c. di nessuno).”
Quindi se ci rifacciamo alla prima definizione va benissimo la parola “Cliente”, ma personalmente non la uso per l’eccessiva parzialità rispetto al contesto di riferimento.
Il termine “Paziente”, le fragilità e l’insicurezza affettiva
La parola Paziente è carica di significato. Ci sono tante emozioni dietro questo termine. E’ vero che se udiamo questa parola non necessariamente ci immaginiamo nello studio di uno psicoterapeuta.
La nostra immaginazione può volare nei corridoi degli ospedali, al pronto soccorso, tra i letti delle terapie intensive, forse possiamo dentro di noi sentire delle urla, lo strazio, dei gemiti di dolore.
Possiamo immaginarci le persone sanguinanti, riverse sul tavolo operatorio non necessariamente sotto anestesia, i medici e gli infermieri che operano.
Possiamo immaginarci un volto contorto in una maschera di dolore. Forse il nostro.
La parola “Paziente” mi rendo conto che sia una parola forte. Fa venire in mente delle cose brutte e ci parla di sofferenza. Infatti è proprio questo il significato a cui richiama la radice etimologica del termine (cito sempre la Treccani).
“paziènte agg. e s. m. e f. [dal lat. patiens -entis, propr. part. pres. di pati «soffrire, sopportare»]”
Paziente ci parla di sofferenza.
Nello studio di uno Psicoterapeuta si parla di dolore e spesso si parte dal dolore. Il dolore è un elemento centrale nella psicoterapia, è quantomeno inutile negarlo.
Il dolore però è anche un elemento prezioso che il nostro sistema mente-corpo ci trasmette per suggerirci un’informazione importante: attenzione hai una ferita!
Il dottore: “dove ti fa male?”; “che tipo di dolore è?”; “quando è iniziato?”; “come è iniziato?”
Il dolore è la spia accesa della nostra fragilità è il punto di partenza per studiare cosa c’è che non va dentro di noi.
Insieme al sogno, il sintomo è il barlume della nostra consapevolezza.
La sofferenza non è solo un aspetto puntiforme sul nostro corpo, come puoi aver letto ho parlato di sistema “mente-corpo” e c’è chi a questo aggiungerebbe anche “anima” o “spirito”. La ferita può essere ovunque in queste dimensioni e la sofferenza ricade come una cascata su di noi, va a condizionarci spesso globalmente.
Con questo non voglio assolutamente suggerire che un sanitario debba trascurare un criterio fondamentale: quello dell’intensità e della frequenza del dolore.
Quanto il dolore abbia condizionato ciò che per te è la normalità del tuo esistere nel tuo mondo.
Quanto abbia ridotto il tuo funzionamento che ritieni normale.
L’attenuazione del dolore quindi c’è in una psicoterapia, ma questa è inserita in un contesto nel quale si va ad intervenire sulla ferita.
Il Paziente in ottica processuale.
Sempre la Treccani: “1. agg. a. Che ha la virtù (o la qualità) della pazienza, come disposizione abituale: è un uomo assai p.; un maestro p. con gli alunni; essere p. nelle avversità; l’asino e il bue sono animali p.; o come atteggiamento occasionale: cerca di essere p. con lui; non ti inquietare così, sii paziente! b. Che opera con cura, con precisione e costanza: un lavoratore p., un p. ricercatore. c. estens. Che esprime pazienza: tu co ’l lento Giro de’ pazienti occhi rispondi (Carducci, del bove). Di cosa, fatta, compiuta con pazienza: studî p., ricerche p.; dopo p. indagini; ha bisogno di lunghe e p. cure.”
Trovo bellissima questa definizione perché ci proietta su un altro aspetto fondamentale della psicoterapia. La pazienza, la relazione psicoterapeutica e la ricerca minuziosa.
Quando ti fai del male a livello nervoso si attiva un arco riflesso per il quale eviti il dolore e quindi di procurarti un danno serio.
Ti bruci con la lampadina? Istintivamente ti viene da sottrarti al dolore urente. Il tuo corpo non vuole che ti causi danni all’epidermide.
Nel “disturbo mentale” noi continuiamo ad avvicinarci ed allontanarci da questa lampadina bollente, continuiamo sempre a scottarci ed a farci sempre un po' male.
Il punto quindi sta nel ricostruire il come ed il perché lo fai, ovvero fare un’analisi dei tuoi bisogni.
Bisogna quindi iniziare, col paziente, un po' come gli investigatori. Insieme vanno ricostruiti, appunto minuziosamente, i pezzi di quanto sta accadendo, bisogna stabilire il movente di tutto ciò.
I fatti del mondo non sono determinati dal caso, c’è sempre un “Effetto Farfalla” e così vale anche per i fatti della mente.
L’effetto farfalla nella realtà della nostra mente sarà ancor meno lineare di quello nella realtà delle cose fuori di noi, sarà impressionistico, fatto di credenze, emozioni, sentimenti, insicurezza affettiva, libere associazioni, controversie, incompletezze, metafore e sospensioni. Dolori e sorprese.
Il senso sarà nella trama del racconto e nel ricucirla si palesa come un’impressione.
Riappropriarsi del senso delle proprie cose chiaramente implica emotività di varia natura, ma al contempo una maggiore sensazione di coerenza e di linearità. Una maggiore percezione di essere padroni di Sé stessi.
La ricerca del senso non sarà in termini assoluti, ma vorrà dire smuovere quanto basta per dare un maggiore benessere al paziente. La conoscenza in senso lato non è perseguibile in assoluto, questa sarà lo strumento, non il fine ultimo.
Inoltre la realtà su sé stessi sarà sempre affrontata in termini dubitativi, non dogmatici. Non esiste una realtà assoluta se parliamo di scienze umane. Esistono molteplici realtà attraverso le quali ci muoviamo e con le quali pitturiamo il nostro mondo di emozioni (Maturana & Varela,1980) .
Il paziente quindi intraprende una ricerca su Sé stesso nella relazione con lo psicoterapeuta. L’oggetto stesso dell’indagine sarà Lui. Quindi il ricercatore e lo scienziato dovranno necessariamente essere i ruoli che riveste il Paziente. Lo Psicoterapeuta chiaramente lo affiancherà, indicherà varie strade da battere (Kelly, 1955).
Il Paziente e la malattia
“2. s. m. e f. Persona affetta da una malattia, e più genericam. chi è affidato alle cure di un medico o di un chirurgo...”
Il disturbo mentale non è un disturbo fisico.
I fiumi di letteratura sul disturbo psichico nelle varie correnti scientifiche e nelle varie epoche identificano questo fatto come una forte perturbazione interna che ha causato un blocco nel Paziente.
La personalità dell’individuo era troppo rigida o duttile per poter assimilare alcuni fatti della sua vita, quindi questi non verranno bene elaborati, ma resteranno in sospeso perché la persona non riuscirà a donargli un senso completo o lo darà solo attraverso dei sintomi (Guidano,1991)
.
Guardando il disturbo psichico in quest’ottica chiaramente ci diciamo: “effettivamente è qualcosa che è dentro il Paziente”, è suo, costituzionale. Non è un accidente come può essere una malattia fisica.
La cosa quindi ci spinge su un terreno di inquietudine.
Se riusciamo però a concepire anche l’altra faccia della questione allora possiamo intuire quanto sia un terreno sì minaccioso, ma carico di speranza.
“effettivamente sì, è qualcosa che è dentro il Paziente, è parte del Paziente”
E’ una sua parte costitutiva. Ma è solo una delle sue parti, quella che in un certo momento della vita è più in risalto ma al contempo è meno ascoltata. Dimmi te se ciò non causa disagio e sofferenza.
Necessita comprensione.
Questo ci spinge su due piani di speranza: da un lato con la psicoterapia si ascolta ciò che si riteneva inascoltabile. Dall’altro sempre con la psicoterapia ci si riappropria di un elemento percepito come scomodo ma che si inserisce in un quadro come un parte di una totalità molto più poliedrica.
Ciò vuol dire quindi accettare parti di noi stessi ed avere padronanza.
Conclusione
Come hai potuto ben vedere quindi dietro la parola Paziente ci sono elementi fondamentali della psicoterapia, del lavoro sul Sé.
In conclusione spero di aver chiarito perché per me, secondo la mia prospettiva di “psicoterapia classica”, il Paziente è un Paziente, nel senso più nobile del termine.
Il Paziente soffre ed è ferito, e la ferita sanguina ed è sporca, una sporcizia che non si vorrebbe vedere, che si nasconde agli altri e a noi stessi, ma che esiste in quanto parte costitutiva del nostro essere.
Il Paziente che soffre così male è scomposto, insicuro e sa di essere irrisolto ma ha una cosa: l’ascolto.
Quindi la speranza.
BIBLIOGRAFIA
Maturana, HR., Varela FJ. (1980) Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Boston: Reidel
George A. Kelly, The Psychology of Personal Constructs, Volume 1, Norton, New York, 1955
Guidano, V.F. (1991). The Self in process, Guilford, New York (Trad. It.: "Il Sé nel suo divenire", Bollati Boringhieri, Torino, 1992).
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