Quando si parla di psicoterapia cognitiva e comportamentale spesso ci salta in mente un approccio tecnico.
Questo è inevitabile, perché se una persona ha una minima conoscenza di cosa sia questo tipo di approccio sa anche che è famoso per le innumerevoli tecniche (si, ne conosco un centinaio) e per la relazione “anglosassone” e direttiva col paziente.
In questo articolo voglio ammorbidire un po’ questa idea di cognitivismo tecnico. Chiarirò il ruolo che ha la tecnica in psicoterapia. Cercherò inoltre di spiegare come si inserisce, secondo me, un approccio tecnico in una psicoterapia cognitivista moderna.
E’ un articolo piuttosto discorsivo ma visto che riflette abbastanza la psicoterapia che faccio io se si intraprende la lettura, prego di leggerlo fino alla fine, in modo da evitare fraintendimenti.
Ti spiego brevemente cos’è una tecnica psicologica.
Credo ce ne siano a migliaia, in alcuni casi se hai le adeguate competenze cliniche (e se sei uno psicoterapeuta) le puoi anche “tagliare sul paziente” modificandole.
Alcune tecniche sono “carta e penna”, altre sono comportamentali, altre più dialogiche e possono tra l’altro essere mescolate al colloquio, quindi assumono la forma di un discorso strategicamente orientato.
Fondamentalmente le tecniche sono dei mezzi di comunicazione che aiutano clinico e paziente ad avvicinarsi allo studio di certi contenuti mentali. Quindi hanno la funzione di “sbloccare” impasse psicologici di svariato tipo e di orientare l’intervento in modo più puntiforme su strutture mentali specifiche.
Come ogni strumento però se non si sa come usarlo e se non si usa nell’adeguato contesto (ed in questo caso è la psicoterapia) e non è uno psicoterapeuta o uno psicologo a farlo, questo non ha effetto.
Partiamo dalle basi: l’approccio cognitivo comportamentale è tecnico?
Si. Associare la psicoterapia cognitiva e comportamentale alla tecnica non vuol dire avere un falso mito di questa.
Se sai cos'è la psicoterapia cognitiva e comportamentale sai bene che è famosa per questo motivo e prima di tutto per le tecniche comportamentiste maturate in tutto il Novecento.
Le tecniche comportamentiste sono famose per la loro efficacia nell’intervenire sui sintomi psicologici e mi sento di dire che possono essere un valido aiuto in quasi tutti i tipi di interventi psicoterapeutici.
Successivamente sono state maturate anche le tecniche Cognitiviste Standard o Razionaliste, che si propongono di intervenire sui pensieri disfunzionali alla base dei sintomi psicologici. Anche queste sono molto famose ed efficaci.
Culturalmente la psicoterapia cognitiva e comportamentale è maturata in un ambiente anglosassone, quindi possiamo riscontrare un originario rapporto prescrittivo e performante col paziente.
Il terapeuta instaura una relazione molto dialogica e costellata di tecniche per sgonfiare il contenuto patologico di alcuni pensieri del paziente, quelli che gli causano dei sintomi.
L’aspetto prescrittivo è che il terapeuta dà le tecniche al paziente e questo le deve applicare a casa, come “homework”.
Possiamo quindi immaginarci un paziente che, dopo essere stato dallo psicoterapeuta, va a casa ed inizia a compilare varie schede riguardanti i suoi sintomi, appena questi si presentano, tutto ciò prescritto dal terapeuta col quale poi “smonterà” gli elementi disfunzionali di questi.
Quando la psicoterapia cognitivo comportamentale è approdata in Europa, e soprattutto nel mondo Latino, si è chiaramente plasmata nel nostro contesto socioculturale.
E’ chiaro che abbiamo abitudini diverse dagli anglosassoni e, la faccio breve, è molto poco probabile che un approccio rigidamente prescrittivo possa trovare sponda con la maggior parte dei nostri pazienti.
Attenzione: tutto ciò non vuol dire che con gli italici pazienti non si possa fare un’adeguata psicoterapia!
Ci mancherebbe altro.
E’ vero che i latini, soprattutto se giovani, tendenzialmente sdegnano l’approccio prescrittivo, l’aspetto tecnico e talora anche una maieutica un po’ troppo entrante sui loro pensieri.
Ma questo può essere un punto di forza.
Cerco di parafrasare I.Yalom (2019) per spiegare questo aspetto.
Se si conosce la natura del sintomo psicologico possiamo capire come approcciandoci rigidamente con uno schema tecnico-prescrittivo si possa sì creare un senso di estrema professionalità nel paziente. Alla lunga però non permettiamo a questo di lavorare sul suo senso di individualità, quindi di operare attivamente sule sue scelte, di acquisire responsabilità su ciò che avverte esterno e discrasico da Sé.
Quindi con un approccio rigidamente tecnico interveniamo molto efficacemente su alcuni sintomi, ma c’è la possibilità che non si operino cambiamenti profondi.
Faccio un esempio scherzoso:
“Sì dottore, non ho più tanta ansia, ho capito di non essere un topo… per fortuna che anche i gatti lo sanno!”
E’ anche vero che una psicoterapia senza tecniche rischia di “perdere forma” e quindi andare a tramontare per il senso di spaesamento da parte del paziente.
Qual è quindi l’approccio giusto?
Come in ogni campo scientifico il dibattito è aperto, soprattutto in psicoterapia ci sono una miriade di approcci, culture, che si declinano in molti modi e dimensioni. Ed onestamente possiamo dire che l’approccio riflette anche la persona che lo eroga. Siamo tutti umani.
Qui dunque ti dico la mia, la visione di Paolo Mirri, uno psicoterapeuta che si ritiene più psicoterapeuta che psicologo, maschio, trentacinquenne, Pisano di origine, libero professionista, cognitivo comportamentale e tendenzialmente Post-Razionalista.
Per poter capire l’approccio più adeguato è importante sapere chi sei come clinico, insomma che tipo di “animale sociale” sei, capire qual è l’altro “animale sociale” che si ha davanti e conoscere cosa fanno le tecniche.
Quest’ultimo aspetto non è scontato perché nella fantomatica comunicazione online che possiamo apprezzare sui social si passa un po’ il concetto che sia la tecnica a fare la psicoterapia.
O peggio: si passa il concetto che ci possa essere una tecnica che ti risolve un problema!
Chiaramente questo tipo di contenuto è falso. Le tecniche non sono magie, ad oggi non è scientificamente provata l’esistenza della magia, i problemi si risolvono in prima persona, ed eventualmente col supporto di un clinico. Perché da animali sociali è sano chiedere aiuto.
Da psicoterapeuta concepisco la terapia come ciò che è concretamente: un rapporto umano di collaborazione entro il quale si aiuta la persona a riappropriarsi di aspetti di Sé che si esprimono con sintomi, all’elaborarli e quindi accompagnarlo nel periodo che sta affrontando.
Questo tipo di rapporto è la psicoterapia, la tecnica, soprattutto se dialogica, è un facilitatore spesso necessario. L’applicazione rigida di “homework” non sta particolarmente nel mio DNA clinico, nonostante a mio parere a volte sia necessaria.
In ogni modo quando parlo di applicazione di "homework" non intendo il fare i “compiti a casa di scolastica memoria”, bensì l’applicazione delle tecniche in circoscritti momenti, spesso nei momenti sintomatici.
Il metodo prescrittivo anglosassone, come ho detto prima, lo vedo superato, è molto meglio un approccio basato sull’alleanza e la cooperazione. Un metodo non che prescrive, un modo per spingere la persona, per dargli “il là”, una terapia che possa formare la persona ad incuriosirsi pure sulla sofferenza.
BIBLIOGRAFIA
Yalom I.D.“Psicoterapia esistenziale”, Neri Pozza Editore, 2019
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